La desolazione della soppressione

Dopo pochi decenni dall’intervento riparatore di Maria Luisa di Borbone ci fu una nuova tragica soppressione degli ordini religiosi, decisa questa volta dal “neonato” Regno d’Italia, a seguito della ben nota “questione romana”. Lo Stato prese misure radicali nei confronti degli enti religiosi cattolici presenti nel Regno e del loro patrimonio; con la legge 7 luglio 1866 dispose la soppressione di ordini, corporazioni e congregazioni religiose “i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico”. Negando agli enti religiosi la personalità giuridica si negava agli stessi la possibilità di essere proprietari di terre, conventi, monasteri. I loro beni vennero assegnati al Demanio dello Stato che riconosceva per essi una rendita del 5% al Fondo per il culto, che avrebbe dovuto garantire una pensione ai membri degli ordini soppressi. Una successiva legge del 15 agosto 1867 soppresse 25.000 enti ecclesiastici che non avevano cura d’anime. I fabbricati degli enti soppressi passarono ai comuni ed alle province per essere adibiti ad uso pubblico (scuole, asili, ospedali, caserme, ecc.); a fine ottocento risulterà che nove edifici pubblici su dieci erano costituiti da beni acquisiti grazie alle leggi del 1866-1867. Lo stato incamerò anche libri, manoscritti, opere d’arte degli enti soppressi, destinandoli a musei e biblioteche pubbliche. Queste leggi aggravarono ulteriormente i rapporti già tesissimi tra il nuovo Stato e la Chiesa, che vi lesse l’intento di favorire la scristianizzazione della società italiana. Effettivamente per la maggioranza della classe dirigente liberale, laica e massonica, la soppressione degli enti ecclesiastici e l’incameramento dei beni rappresentavano uno strumento per colpire alla radice il potere e l’influenza della Chiesa, considerata da molti nemica per antonomasia della civiltà moderna e del progresso. Lo Stato affermò con queste leggi di ritenersi “proprietario” anche dei beni della Chiesa ed arrivò a giudicare come “socialmente inutili” gli ordini religiosi, soprattutto quelli contemplativi, che non avevano cura d’anime. Motivo meno ideologico era il fatto che, attraverso la vendita del patrimonio degli enti religiosi, si puntava a ridurre il disavanzo del bilancio statale che si era notevolmente aggravato con la guerra del 1866.

Di fronte a queste leggi il commento dello storico della Provincia dei Frati Minori è il seguente: “di nuovo la desolazione della soppressione si abbatte sui Frati Minori di Toscana, i quali attraverso stenti e sacrifici di ogni genere poterono conservare e riscattare quasi tutti i loro antichi conventi”.

Il convento del Borgo, come già detto in altra parte di questa pubblicazione, sia pur tra mille difficoltà ed artifizi riuscì a “sopravvivere” ad entrambe le principali “soppressioni”; ma non è escluso che possa aver perduto opere d’arte contenute al suo interno.

Riesce difficile comprendere come sia stato possibile, ai governi dell’epoca (Napoleone nel 1810 e Stato unitario nel 1867) colpire, in maniera drastica, simboli così significativi come gli ordini religiosi, i conventi e i monasteri, in tempi in cui la Chiesa esercitava un grandissimo condizionamento delle popolazioni.

Una curiosità storica che testimonia la tensione tra Chiesa e Stato: il frate minore riformato Giacomo da Poirino che il 5 giugno 1861 amministrò, in punto di morte, i sacramenti al conte Camillo Benso di Cavour, fu sospeso a divinis da Pio IX, poiché non aveva richiesto allo stesso Cavour una esplicita ritrattazione dei “gravi fatti da lui ispirati contro lo Stato della Chiesa”. Il frate minore fu riammesso all’esercizio del ministero sacerdotale solo nel 1884 da Leone XIII (il Papa della “Rerum Novarum”).